Catena Fiorello Galeano, autrice poliedrica ed affermata tra le grandi firme contemporanee italiane, torna nelle librerie con un nuovo lavoro editoriale “Ciatuzzu” (Rizzoli, 2023) dove racconta una realtà di infanzia dura ma comune a milioni di famiglie del secolo scorso.
- Da cosa nasce “Ciatuzzu”? C’è qualcosa di autobiografico o qualche legame con la realtà?
Ciatuzzu nasce dall’osservazione attenta di quello che è stato il fenomeno dell‘immigrazione dalla fine dell’Ottocento in poi, soprattutto da parte degli italiani che si muovevano per andare oltre oceano verso Stati Uniti, Argentina, Brasile ma anche in paesi europei come Francia, Belgio e Svizzera. Ciò che mi ha portato ad approfondire questo fenomeno è che si tratta di storie quanto mai attuali ai giorni nostri che meritano di essere approfondite ed affrontate.
- “Ciatuzzu” racconta la storia di un bambino costretto fin da piccolo a sofferenze e privazioni. Una storia comune a migliaia di famiglie meridionali emigranti negli anni ‘60-‘70. Lei quanti “Nuzzo” ha conosciuto durante la sua infanzia in Sicilia?
Ciatuzzu, racconta una storia comune a molte famiglie, non solo meridionali, perché il fenomeno dell‘immigrazione a partire dagli anni ‘60 e ‘70 ha riguardato anche moltissimi settentrionali. E’ importante ricordarlo perché bisogna puntualizzare e sottolineare che questa realtà non è stata solo una nostra prerogativa, ma, anzi, nei miei studi ho scoperto intere colonie di abitanti di paesini della Lombardia, del Piemonte, del Friuli, dell’Emilia, della Sardegna costretti ad emigrare via per procurarsi un pezzo di pane ed un futuro migliore. Di bambini come Nuzzo ne ho conosciuti davvero tanti perché nel mio paese, a Letojanni, un piccolo borgo di mare sotto Taormina, ad agosto ne ritornavano tanti ed io, essendo lì in vacanza, li ritrovavo, ci giocavo insieme e ne conoscevo la realtà, anche se non per intero. Quando si è bambini rimane tutto in superficie, non si approfondiscono certe tematiche, cosa che invece ho fatto da adulta.
- “A cu appartieni? Di cu si figghiu?” Quante volte è capitato che ci venisse chiesto dai più anziani del paese… è un po’ come voler sottolineare che sono le nostre radici a definire chi siamo. Quanto sono importanti per lei le sue radici e quanto hanno inciso sulla Catena di oggi?
A cu appartieni? Di cu si figghiu? è un modo di dire siciliano, che in realtà appartiene al Salento, alla Calabria, a tutti i piccoli centri e soprattutto, questa è una realtà che appartiene a molti di noi, perché la genealogia spesso diventa un modo per riconoscere e riconoscersi. E le radici sono fondamentali: puoi allontanartene, magari perché ti ribelli al tuo passato, specie quando non è piacevole. Però poi la storia ritorna e noi abbiamo bisogno di ricongiungerci non solo con le nostre radici, ma anche con la nostra identità come persone. A un certo punto della vita, presto o tardi, sentiamo questa necessità. Per fortuna, aggiungerei.
- Nel libro c’è un passaggio molto significativo sulla gentilezza, grazie alla quale “si possono risolvere molte questioni”. Secondo lei, c’è bisogno oggi di un ritorno alla gentilezza?
Ho voluto affrontare la questione della gentilezza anche in questo romanzo, perché nel racconto c’è tanta durezza e tristezza dell’anima visto che la vita degli emigranti non è stata certo facile. Facendo raccontare questa storia ad un uomo che ha ancora le sensazioni di quando era bambino, quindi ha gli occhi rivolti verso il passato, avevo bisogno anche di un contraltare, di capire cosa c’era oltre a quella tristezza nella vita di queste persone. Sì, c’era anche la gentilezza, magari camuffata, perché c’era molto pudore in quegli anni anche nello svelare i propri sentimenti, per cui la gentilezza si celava dietro un “Cosa hai mangiato? Cosa ti preparo da mangiare?”. Gli abbracci si davano con il contagocce, non perché non ci fosse amore o gentilezza, ma perché c’era pudore nel manifestarli. Ma ce n’era tanta, a differenza di questo nostro tempo, che invece ci mostra molta volgarità e molta presunzione, arroganza. Se leggiamo i commenti sui social vediamo come le persone si sentano libere di manifestare la propria aggressività anche attraverso parole dure, spesso gratuitamente. Quindi sì, io credo proprio che ci sia bisogno di ritornare a una gentilezza che definirei originaria, quella che tutti noi abbiamo, ma che spesso mettiamo da parte per difenderci nella giungla di tutti i giorni. Tuttavia, secondo me, per difendersi dai problemi e dalle insidie non serve rivolgersi agli altri con maleducazione. Anzi, un sorriso in più fa bene a tutti.
- La domanda che ci piace sempre fare ai nostri ospiti è: qual è il suo legame con il Salento?
Il mio rapporto con il Salento è un rapporto di grande amore e affetto reciproco; io amo questa terra che sento ormai mia. Non sono una siciliana che viene a trovarvi di tanto in tanto, anche perché vivo tra Lecce e Squinzano. Non mi sento una turista ma mi sento parte del popolo salentino. E c’è una bella differenza tra il sentirsi amati ma essere “di fuori” e sentirsi amati e accolti perché si fa parte della Comunità. Ecco io, almeno perché lo frequento e ci vivo da tanto tempo, mi sento di far parte della gente salentina. Amo questa terra e la proteggo come se fosse mia. Mi piace il fatto che finalmente sia stato riconosciuto al Salento il valore che per molti anni riconoscevano solo quelli che ci abitavano: ormai è una terra conosciuta, amata e apprezzata in tutto il mondo. È una terra che però va anche protetta: dal turismo selvaggio, da chi pensa di venire, depredare e sfruttare le sue bellezze solo per il periodo estivo. Una terra che invece va amata, coccolata, e, ancora, protetta: solo così si può salvaguardare il valore di questo bellissimo Salento.